Con sentenza del 29 luglio 2020 n. 16253, la Corte di Cassazione, ha deciso che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo alla cessazione di un contratto d’appalto deve essere reinserito se il datore non prova in concreto l’effettiva esuberanza della posizione del dipendente e l’impossibilità di rimpiegarlo. Il Collegio d’Appello, aveva già escluso che la cessazione dell’appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento in assenza appunto della prova del necessario nesso causale tra la ragione organizzativa produttiva posta a base del recesso e la soppressione del posto di lavoro, atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in epigrafe, si è trattenuta ad analizzare il discrimine tra l’attuazione della tutela indennitaria prevista dall’art. 18, co. 5 (indennità omnicomprensivacompresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità) e la tutela reintegratoria“attenuata” prevista dall’art. 18, co.4 nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla luce di quanto disposto dall’art. 18, co. 7 della L. 300/1970, modificato dalla L. 92/2012.
La L. n. 92 del 2012, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18 una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima.
Il discrimine tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è descritto dal settimo comma dell’art. 18 novellato, secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: “Può altresì applicare la predetta disciplina – quella di cui al quarto comma – nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Nel caso particolare, la Corte ha confermato la sentenza di merito nella quale era stato ritenuto che la giustificazione addotta a supporto del licenziamento, incentrata sul venir meno dell’attività dal lavoratore dedicata al telegiornale ed alle trasmissioni di un canale televisivo ceduto dalla società datoriale ad altra emittente televisiva, fosse stata smentita dall’istruttoria, essendo emerso che il predetto lavoratore, al momento del recesso, era adibito in via prevalente ad altre mansioni, rimanendo così escluso il necessario nesso causale tra la cessione del canale televisivo ed il licenziamento.
Pertanto per quanto sopra indicato la società datoriale, non può pensare di attuare il licenziamento solo sul giustificato motivo della cessazione di un appalto, ma deve provare il nesso di causalità, anche descrivendo l’organigramma organizzativo della società e gli appalti in essere al momento del licenziamento, in modo da comprovare che la posizione del dipendente licenziato sia veramente diventata esuberante e che lo stesso non sia più conveniente trattenerlo in servizio.
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