Le conversazioni svoltesi sul canale informatico WhatsApp , operata da uno degli interlocutori, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234, comma 1, codice procedura penale prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o altro mezzo (in tema di registrazione fonica cfr. Sez. 1, n. 6339 del 22.01.2013 , Pagliaro, Rv. 254814; sez. 6, n. 16986 del 24.02.2009, Abis, Rv. 243256), l’utilizzabilità della stessa è, tuttavia, condizionata dall’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale (sez. 2, n. 50986 del 06.10.2016, Rv. 268730; Sez. 5, n. 4287 del 29.09.2015 – dep. 02.02.2016, Pepi, Rv. 2656624): tanto perché occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato.
Pertanto con la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, n. 49016 del 25 Ottobre 2017, i messaggi WhatsApp, in un processo penale non possono essere considerati affidabili a meno che non si fornisca anche il supporto originario (il telefono cellulare) contenente il messaggio per verificarne paternità e attendibilità.
Per avere valore probatorio, la procedura corretta per produrre i messaggi e le foto di Whatsapp in un procedimento penale è di compiere l’acquisizione forense certificata delle chat WhatsApp, con cristallizzazione della prova oppure il deposito del cellulare.
Scarica in pdf la sentenza della Corte di Cassazione n. 49016 del 2017: Corte di Cassazione sentenza n. 49016 del 2017
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Le conversazioni svoltesi sul canale informatico WhatsApp , operata da uno degli interlocutori, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234, comma 1, codice procedura penale prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o altro mezzo (in tema di registrazione fonica cfr. Sez. 1, n. 6339 del 22.01.2013 , Pagliaro, Rv. 254814; sez. 6, n. 16986 del 24.02.2009, Abis, Rv. 243256), l’utilizzabilità della stessa è, tuttavia, condizionata dall’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale (sez. 2, n. 50986 del 06.10.2016, Rv. 268730; Sez. 5, n. 4287 del 29.09.2015 – dep. 02.02.2016, Pepi, Rv. 2656624): tanto perché occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato.
Pertanto con la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, n. 49016 del 25 Ottobre 2017, i messaggi WhatsApp, in un processo penale non possono essere considerati affidabili a meno che non si fornisca anche il supporto originario (il telefono cellulare) contenente il messaggio per verificarne paternità e attendibilità.
Per avere valore probatorio, la procedura corretta per produrre i messaggi e le foto di Whatsapp in un procedimento penale è di compiere l’acquisizione forense certificata delle chat WhatsApp, con cristallizzazione della prova oppure il deposito del cellulare.
Scarica in pdf la sentenza della Corte di Cassazione n. 49016 del 2017: Corte di Cassazione sentenza n. 49016 del 2017