Non commette reato la coppia italiana che fa ricorso all’utero in affitto in Ucraina, se nel paese tale pratica è lecita. Non è reato avvalersi della maternità surrogata in un paese in cui (a differenza dell’Italia) questa pratica non è vietata dalla legge. I protagonisti della vicenda erano andati in Ucraina per avere un figlio con la maternità surrogata, tramite una donna che aveva acconsentito a farsi impiantare gli spermatozoi dell’uomo insieme agli ovuli di una donatrice sconosciuta.
La pratica è perfettamente lecita in Ucraina e prevede che, dopo il parto, la madre surrogata dia il consenso a che il neonato sia dichiarato all’anagrafe come figlio naturale della coppia appaltante. Per quanto riguarda il ricorso all’utero in affitto la Cassazione ha ritenuto che, in tema di reati commessi all’estero, al di fuori dei casi tassativamente indicati all’art. 7 c.p., è condizione indispensabile per il perseguimento dei reati commessi all’estero dallo straniero che questi risultino punibili come illeciti penali, oltre che dalla legge penale italiana, anche dall’ordinamento del luogo dove sono stati consumati.
Per la Cassazione, inoltre, i coniugi non sono perseguibili per non aver risposto alla richiesta del funzionario dell’ufficio consolare italiano di Kiev “di chiarire se si fossero avvalsi della procedura di surrogazione di maternità, all’interno del territorio ucraino”. La Cassazione ha ritenuto che un simile comportamento non può essere considerato “una falsa dichiarazione” in quanto le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani (e tale è il minore, in quanto figlio di padre italiano: art. 1, comma 1, lett. a) della l. n. 91 del 1992) nati all’estero sono rese all’autorità consolare (comma 1) e devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti, se ciò è imposto dalla legge stessa.
Per questi motivi, i supremi giudici della Quinta sezione penale, hanno osservato che “non è dato cogliere alcuna alterazione dello stato civile del minore nell’atto di nascita del quale si discute, che, al contrario, risulta perfettamente legittimo alla stregua della normativa nella quale doverosamente è stato redatto”. (Cassazione sentenza n° 13525 del 2016).